The Corran Keepers

Le avventurose imprese di un quartetto di eroi sul mondo fantasy di Mystara.

14.08.10

La piú bella estate di Glantri

Nella piccola comunitá di Trintán, Gúy De Kere se ne stava seduto su una gigantesca sedia a dondolo, i fogli delle memorie che era intento a scrivere tenuti sul tavolo da un fermacarte di cristallo. Gúy, un uomo minuto rispetto ai suoi fratelli, era peró l'unico praticante della magia degno di questo nome nel villaggio. La sua abilitá nell'evocare creature aveva reso alcuni dei lavori piú faticosi una storia del passato; questo, piú il suo temperamento gioviale e la sua acuta intelligenza lo avevano reso, sebbene non ufficialmente, il vice-sindaco del villaggio.
Osservava da sopra una delle pagine che teneva in mano le le possenti pietre del mulino ad acqua, una delle costruzioni piú famose del sud di Glantri. Al suo interno si trovavano le mole che macinavano i cereali, ma non solo. Le sei pale ad acqua, ognuna alta come due uomini adulti, azionavano delle seghe che tagliavano il legname per la vendita, ed i soffietti per la forgia dell'acciaio nell'altoforno. Anche da laggiú poteva sentire chiaramente la ritmica cadenza dei martelli sulle incudini. Era il vespro, e presto il fabbro, il carpentiere ed il mugnaio sarebbero passati da lui per la solita chiacchierata serale, alla fine della giornata di lavoro. Forse avrebbe aperto quella bottiglia di rosso di Nuova Alvár...

Quell'estate, nel sud di Glantri, prometteva di essere una vera delizia. La nube di cenere era ormai svanita, spazzata via dai venti evocati dai maghi della capitale, e la guerra sembrava cosí lontana... Solo poche settimane prima, sul finire della primavera, dei mercanti avevano riferito, passando per Trintán, che gli Heldann si erano uffcialmente alleati a Thyatis, ratificando un impegno che avevano mantenuto ufficiosamente per tutto l'anno passato. Certo, Freiburg era ancora sotto assedio, ma presto le orde del Khan si sarebbero stancate, e se ne sarebbero tornate a casa.

Guy chiuse gli occhi, e lasció che la brezza del Sud portasse l'aroma delle vigne, dei castagni, del fieno, alle sue narici. Li spalancó di colpo, quando la stessa brezza portó un dardo di balestra fino al suo ginocchio, inchiodandoglielo alla sedia. Lanciando un urlo di dolore, il mago cercó di capire quello che stava succedendo. Un'asta di legno, dalle penne nere, ancora vibrava nella sua gamba. Cercando di reprimere le ondate di dolore che lo assalivano, Guy provó a liberarsi, senza successo. Delle urla provenivano dalla forgia. Degli strepiti, il cozzare di armi, un esplosione, poi le parole di un incantesimo, infine un'altra esplosione, ed il fumo e le fiamme si levarono dalla forgia. La Paditte, il fabbro, uscí di corsa dalla porta, spada in mano, il viso mezzo bruciato, il grembiule di cuoio zuppo di sangue. Due, tre, quattro frecce comparvero nella sua schiena, in rapida successione. L'uomo ruzzoló in avanti, per finire ai piedi di De Kere, morto. Dalla forgia sbucarono una mezza dozzina di creature. Alte come un uomo, ma robuste come orsi, la loro pelle grigia e spessa era protetta da rozze cotte di maglia. In testa avevano elmi mostruosi, ed in mano tenevano lance corte e pesanti, ed archi di corno. Il loro viso, ferino, bestiale, ne tradiva senza ombra di dubbio l'origine.

Orchi! - mormoró, terrorizzato, De Kere. Cosa ci fanno qui degli orchi? Le Terre Morte sono almeno a due giorni di cavallo!

Il gruppo di predoni lo oltrepassó di corsa, senza badare a lui. Dopo di loro, da ogni direzione, ne arrivarono altri. Trenta, quaranta, forse cinquanta in tutto il villaggio. Da dove stava, De Kere sentiva le urla di terrore e agonia, le grida di panico che provenivano dal villaggio. Alla fine, una delle squadre di saccheggiatori si accorse che era ancora vivo. Fecero cerchio intorno a lui, sogghignando al pensiero del divertimento che li aspettava.
De Kere raccolse le forze che gli rimanevano ed inizió ad evocare una creatura. Gli orchi non capirono se non troppo tardi, quando un centopiedi lungo come un coccodrillo si materializzó dal nulla, in un lampo di zolfo e fiamme, ed attaccó l'orco piú vicino. Presi dal panico, gli altri scapparono, poco prima che la creatura evocata fosse richiamata al suo piano di origine.

Forse c'era ancora qualche speranza. Se fosse riuscito a rimediare a quella ferita, De Kere avrebbe potuto salvare il villaggio, o almeno quanta piú gente posibile. Quell'attacco era assolutamente inspiegabile. Aveva sentito dire storie sul Grande Orco, Thar, e sulle migliaia di umanoidi che si ammassavano al confine delle Broken Lands, ma pensava fossero solo storie. Le Broken Lands erano state distrutte dai frammenti della pioggia di fuoco l'anno prima, dovevano essere morti tutti, o quasi, da quelle parti. E Glantri, una nazione di maghi, come pensavano di attaccarla? Sarebbe stata follia pura... forse quello era solo uno sfortunato raid, ma perché non era giunto nessun avvertimento? Cielo! - pensó in preda al panico, scorreria o invasione, per le genti di Trintán non cambia nulla! Saranno morti tutti prima di notte, i fortunati...

De Kere estrasse il dardo dalla ferita. Forse era avvelenato? Non sembrava, e a parte i dolore per il danno al ginocchio, non sentiva altri effetti. Zoppicó verso casa, oltre il corpo di La Paditte, e rovistó tra i suoi cassetti. Ne aveva una, pronta per un esigenza del genere. Una pozione che lo avrebbe curato del tutto. Usando quella, e la sua bacchetta, avrebbe rovesciato le sorti della battaglia. Stava per ingurgitare il contenuto della pozione quando una mano grande come il corpo di un uomo entró dalla finestra e lo tiró fuori in una pioggia di schegge e frammenti di vetro.

De Kere si ritrovó faccia a faccia con un orco, ma piú alto e piú grosso di qualunque orco avesse mai visto. Lo teneva in mano come fosse una bambola di pezza, fissandolo con occhi gialli, senza pupilla, pieni di una intelligenza maligna e crudele. La sua armatura di maglia brunita, le sue armi decorate, il mantello dai colori sgargianti: quello non era un orco comune. Era un signore della guerra, un capo-tribú, un comandante. Nella sinistra teneva una gigantesca mazza chiodata, la cui testa era sporca di sangue e frammenti di ossa. La mano destra, che teneva De Kere imprigionato in una morsa di ferro, era coperta da un bracciale di metallo nero come la notte, percorso da riflessi sanguigni.

De Kere si preparó alla morte. Ormai non c'era piú nulla da fare, per lui, per Trintán, per i suoi abitanti. Pensó a tutta la bellezza e felicitá che avevano riempito i suoi occhi negli anni che vi aveva trascorso, e inizió a piangere. La morte si fece annunciare da uno strano gelo. Nel mezzo dell'estate piú calda che ricordasse, la temperatura, rapidamente, precipitó. Anche l'orco sembró perplesso. Senza allentare la presa, si guardó attorno cercando di capire perché i suoi sensi lo stessero mettendo in guardia contro una minaccia ancora nascosta.

Poi prese a nevicare. Piccoli fiocchi soffici si adagiarono sul braccio dell'orco, sul prato, sulle case.

De Kere liberó una mano dalla stretta dell'orco, e la avvicinó al volto per ammirare quella bellissima neve di giugno.

Che strano, - pensó, - i cristalli... sono verdi...


Vergato col sangue da | 14.08.10 18:25