The Corran Keepers

Le avventurose imprese di un quartetto di eroi sul mondo fantasy di Mystara.

24.08.05

La Città delle Preghiere

Finalmente in pace, se di pace si può parlare in un luogo come questo, considero a mente fredda gli eventi degli ultimi giorni. Io e Caranwen abbiamo avuto ragione a viaggiare separati. Nella malabolgia del molo di Thyatis, che i cittadini conoscono come il “Piccolo Fiume”, siamo a malapena stati in grado di salutarci, dandoci appuntamento nel porto di Abib di lì a qualche giorno. Una breve attesa, apparentemente, ma densa di sorprese ed eventi.

Giunsi ad Abib nel primo pomeriggio di undici giorni fa. Di Caranwen nessuna notizia. “Capita. Di sicuro arriverà qui domani o dopo...” pensai, cercando l'ufficiale a capo del molo di arrivo. Le mie preoccupazioni furono per un attimo scacciate di fronte alla esagerata magnificenza del palazzo del Porto. Una specie di Tempio, dal centro del cui soffitto, curvo verso l'interno come una torta sgonfiata, cadeva un fiume d'acqua in un vascone posto forse trenta piedi più in basso. Tutto era di pietra bianca, e le palme crescevano dentro il palazzo tanto quanto fuori. Dovetti percorrere un corridoio dalle dimensioni titaniche, tale da far apparire anche un Fomoriano come un bambino spaurito (figuriamci il sottoscritto).

Alla fine di quel corridoio fui io ad essere trovato dai funzionari, e devo dire che rimasi sorpreso nel notare come fossero quasi tutte donne. Volti severi, dai bei lineamenti regolari. Semplicemente vestite, cercavano di apparire amichevoli con i viaggiatori... almeno all'inizio. Nella lingua franca, che parlavano persino meglio di me, mi tempestarono di domande per quasi un ora prima di lasciarmi andare. Volevano sapere tutto della mia permanenza in quella terra. Amici, conoscenti, lavori, oggetti, contatti. Non avendo assolutamente nulla da nascondere risposi educatamente, ma alla fine, lo ammetto, stavo davvero per perdere la pazienza! Non sono certo abituato ad essere trattato così, nel mio paese natio! Infine, con i miei pochi bagagli, riuscii ad entrare nella strana città di Abib. Moderna, ricca, piena di gente da tutto il mondo, meta di viaggiatori, commercianti e uomini d'affari di ogni sorta. Era questa città la capitale di uno stato fondato da poco meno di sessanta anni da un popolo industrioso e pieno di iniziativa, che per alterne vicende (certune davvero tristi se non orribili) si era disperso in giro per il mondo da più di duemila anni. Pare una cifra detta per spaventare, ma a quanto pare potrebbero essere persino di più. Proprio perchè provenienti da ogni angolo di Mystara, queste persone mostrano i lineamenti più vari. Ci sono nordici Heldann, scuri Ethengar, alti e nobili Darokiniani, robusti Thyatiani, bruni Makkai e molti altri, tutti accomunati dall'appartenenza ad un popolo e ad un credo religioso. In verità, in un mondo di pagani come il nostro, questo può sembrare inconcepibile; tuttavia essi si riconoscono tra loro al di là di qualunque chioma dorata, naso sporgente, pelle di ebano o alabastro, occhio grigio o capello crespo. La stretta osservanza dei dettami di una serie di scritti sacri, tramandati da millenni dai saggi e dai dotti, è il loro collante principale.

Lasciai Abib quella sera stessa, con gli occhi colmi di stupore per ciò che avevo visto, e il cuore pieno di preoccupazioni per la sorte della mia amica. Chiedendomi cosa le fosse accaduto durante il viaggio, salii su un tipo di diligenza chiamata Nascjer e feci rotta per la mia prossima destinazione: Mukàddasat, la Città delle Preghiere.
Questa si trova nel cuore di una brulla e desertica regione, fatta di valli disabitate e pendii rocciosi dove pochi pastori si avventurano, radi e bassi arbusti e tanto, tantissimo spazio per far vagare lo sguardo. L'orizzonte, in queste terre, mi apparve tanto esteso da disorientarmi. Per ore ed ore vagai con la mente, finchè il cocchiere del Nascjer mi richiamò alla realtà con lo stesso urlo che aveva fino ad allora dedicato agli altri passeggeri, dicendomi che eravamo ormai prossimi a raggiungere una locanda nota come “Nostra Signora”. Edificata dagli Unti secoli prima, era stata da questi dedicata ad una donna che essi amavano ed ammiravano sopra ogni altra. La statua che la rappresenta, fatta della pietra chiara che qui abbonda, si trovava proprio sopra il portico. Deve essere stata una donna molto bella, pensai, ma sopratutto dolce. Aveva un'aria materna e, devo dire, un espressione un pò triste ed afflitta. La statua guardava in direzione della “Porta Nuova” della Città delle Preghiere e, istintivamente, ne seguii lo sguardo fino ad incontrare le mura.

Ricordo ancora la prima cosa che pensai in quel momento. Misi dieci pezzi d'oro in mano ad un ragazzo giunto per prendere i miei bagagli, a malapena guardandolo. Naso all'insù, guardavo i bastioni, gli spalti merlati, le statue, le guglie che a migliaia svettavano tra i giardini. Ascoltavo la babele di lingue, ammirando la varietà di ogni cosa. Una voce iniziò a cantare in quel momento un richiamo alla preghiera, diffondendosi nel cielo della sera. Cominciai a sentire qualcosa lungo la spina dorsale, qualcosa che rendeva quel luogo diverso da ogni altro.

Non importa quanto caotica possa sembrare Thyatis, o quanto magnifica sia Sundsvall, o quanto imponente sia Darokin. Quel luogo aveva qualcosa di magico. Pensai...

“Per tutte le Potenze, ma questa è Sigil...”

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11.08.05

Vicini di casa…

Bizzarra città questa Port Lucinius. Pare proprio che la gente, in barba alle flotte da guerra Thyatiane, ci venga solo a fare il bagno e a passeggiare. Perché un uomo sano di mente debba passare sette-otto ore sotto il sole ad impastarsi di povere e sabbia rovente per poi darsi il colpo di grazia tenendosi il sale marino addosso, resta un mistero.
Entrando in città sono passato dalla Porta Est e la guida, un certo Xander, mi ha fatto notare una cosa curiosa. C’è presso la Porta Est una specie di fortezza naturale alla base della scogliera. E’ un braccio di roccia, fatto da alti e stretti pinnacoli come quelli che fanno i fanciulli con la sabbia della battigia, che curva su se stesso formando un muro invalicabile, ma visibile solo se osservato dai lati corti. Pare fosse un rifugio di banditi, in tempi ormai lontani. Oggi è abbandonato e, a ben guardare, anche bello minaccioso. Tutta un’altra cosa rispetto al Tempio di Anxur, in cima alla stessa parete, scuro e forte delle sue molte colonne. Ebbene, alla base di questo strano muro c’è un arco di pietra, fatto da tre giganteschi monoliti. E’ spoglio, nudo, semplice, anche bruttino, eppure ha qualcosa di insolito. Tramite esso si doveva accedere, dice la mia guida, al cuore stesso della roccia, forse alla rete di cunicoli che i banditi usavano per il contrabbando. Dico “doveva” perché è stato murato così tanti anni fa che nessuno ricorda più quanti. Chiedo a Xander perché sia stato chiuso.

“Perché era una tana di ratti e altre bestiacce. Che altro motivo ci sarebbe stato sennò? Sgominati i banditi sarà diventato un posto lurido, io penso, che deve aver portato solo malattie e immondi miasmi” mi risponde Xander, compiaciuto di poter fare l’erudito su un fatto avvenuto secoli prima della nascita del suo trisnonno.

Dritto davanti ad esso, solo ed un po’ triste, sta un arco trionfale di pietra e marmo, l’ultimo rimasuglio dell’antica Cinta Muraria del culto degli Unti, i cui possedimenti si estendevano fino a lì, dalla capitale Thyatis. Ben novanta miglia di raggio, e forse molto di più. Ho chiesto spiegazioni a Xander sugli Unti e mi ha detto che essi si sono rifugiati ormai da tempo nella sola capitale di Thyatis, dove ha sede la loro maestosa chiesa centrale, ma che il loro culto ebbe origine assai più lontano, proprio dove sto andando io, a Mukàddasat, quasi duemila anni fa. So di mio che questi Unti hanno ingaggiato eterna lotta con le potenze inferiori, o sottostanti. Insomma, la traduzione di “infernali” non è molto chiara, ma non devono certo essere dei bravi ragazzi, se vivono sottoterra. So anche che queste potenze tentano di uscire, in continuazione, per dominare e corrompere (soprattutto la seconda) il mondo dei vivi.

E’ dunque giunta al mezzo la mia seconda notte a Port Lucinius, giusto il tempo di riposarmi dal lungo viaggio e riordinare le idee. Domani si parte per Thyatis, e solo grazie ad un colpo di fortuna non più vecchio di qualche ora (prima o poi lo scriverò sul diario…). So anche che Caranwen sarà al porto ad aspettarmi. Pur partendo lo stesso giorno, ci imbarchiamo su due navi diverse per maggior sicurezza, con la promessa di ritrovarci a destinazione, nella città di Abib.

Ora, dopo aver ripensato per ore alle due strane porte che si guardano, mi è venuta un’idea assurda. La Porta degli Unti, dritta davanti a quello strano arco di pietra. Entrambe abbandonate, continuano a fronteggiarsi da chissà quanti anni. Un covo di banditi con una porta di pietra in bella vista sulla strada…qualcosa non torna. Prendo la cappa, la daga, la lanterna e corro in strada. A quest’ora una galoppata mi attirerebbe solo le bestemmie dei locali, che vengono qui a riposarsi; andrò a piedi. Giungo alle due porte in quella strana ora poco prima dell’alba in cui si dice che il giudizio divino incomba sulle anime dei dormienti, giusti ed ingiusti. Attraverso lo spiazzo tra le due porte: quella degli Unti si comincia ad intravedere col primo schiarirsi della parte alta del cielo; quella di pietra, invece, resta nascosta. Mi accosto con la lanterna e ne esamino il lastrone di duro marmo che la chiude. Nulla di strano, non a prima vista. Guardo meglio. Graffi, no, simboli, rune, forse. Di certo glifi di potere, anche se non so tradurli. La lastra è stata messa dall’esterno questo è certo, ma non per impedire l’accesso, bensì l’uscita. E’ una porta che chiude qualcosa DENTRO la montagna! D’improvviso non mi sento più tanto solo, anzi, sono in pessima compagnia. Anche se penso che sia tutto nella mia testa, che siano “solo” i miei demoni personali, che la paura per le incognite del viaggio mi stia suggestionando, la mia daga scivola spontaneamente dal fodero, alle labbra affiora un incantesimo.

Poi tutto passa in un sol colpo, e sorrido; con i colori del mondo ritorna anche la mia serenità.

“Tsk, che stupido che sono!” .

Scuoto le spalle e, con una mezza risata, rinfodero l’arma.
Sono felice che stia già albeggiando…

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09.08.05

Zampette sul collo

Edairo, Yarthmont 7 del 1005 AC, soladain

E’ notte. Nel buio della mia camera, ascolto le onde del mare. Rifletto su ciò che mi è appena successo. Sono solo ormai da qualche settimana. Moran, Hierax, Ice e Fëaringel, dopo quella colossale bevuta offerta dall’elfo, sono partiti per il monastero. Non li vedo da allora. So che sono passati di qua, verso i primi di Flaurmont. Erano in incognito, come al solito, e non si sono fatti vivi. Peccato, volevo metterli a parte del mio piccolo progetto; sarà per un'altra volta.

So di avere gli strumenti, seppure rudimentali, per muovermi e perseguire i miei scopi. Eppure resta l’incertezza. Quel luogo mi attira, come una falena il fuoco, eppure mi respinge. Saranno tutte le miglia che ce ne separano, saranno le guerre che di continuo vi scoppiano, sarà che le usanze locali mi appaiono velate dalla leggenda, dal folklore, dall’ignoranza, sarà che sono solo; è un qualcosa che un po’ mi spaventa, ma non abbastanza da dissuadermi.

Vivere per la scoperta, per l’esperienza, per fare ciò che si ritiene giusto. Accumulare migliaia di miglia sotto i piedi, consumarsi le scarpe sul suolo di questa bella Terra che abbiamo, vedere e conoscere, aiutare, dove si può, e vagare. Il viaggio è davvero uno stato della mente, prima che del corpo! Eppure tutti questi indugi mi stanno snervando. E’ tempo di togliere le tende, e in fretta. Il percorso sarà pieno di incertezze ed imprevisti, ed io non ho tanti soldi da potermi permettere di risolvere ogni guaio col danaro. Sono rimasto qui, a Edairo, per finire di salutare tutti. So che tra qualche ora partirò con una diligenza per Kendach. Poi una galera di mercanti di spezie mi traghetterà per la città di Port Lucinius, e devo essere puntuale all’imbarco. Da Thyatis, la decadente e splendida capitale dell’Impero, il primo giorno di Fyrmont un altro veliero mi condurrà ad ovest, verso le terre della magia, degli incensi, dei sacri riti, delle città benedette, dei culti misteriosi, dei mercanti, dei templi dorati, dei conoscitori di stelle.

Ed ora eccomi qua, solo nella mia stanza. Nel cuore della fresca notte, dormo un sonno agitato e leggero. Poi, una sensazione. Zampette. Tante minuscole zampette che mi camminano sul collo, come quelle di un ragno o di un millepiedi. Il ribrezzo mi desta di colpo, nel primo istante di lucidità le lenzuola sono già finite dall’altra parte della stanza. Scatto in piedi. Barcollo, ho un’onda di nausea e le tempie mi stanno battendo come tamburi zembabweni. Ho sonno da morire e sono alto quasi due metri. Il sangue mi è rimasto tutto nei piedi. Afferro il fodero del coltello e agito il braccio. Il pugnale vola fuori dalla sua custodia, rotolando in un angolo e spandendo la sua magica luce blu. Il cuore non ha battuto cinque volte che sono dall’altra parte della camera, nel mio studio. Un riflesso della memoria mi ha guidato là istintivamente. La spada è sulla scrivania, dove l’ho lasciata ieri notte. Me la ritrovo in mano e sto in guardia, senza neanche sguainarla.

Sono solo, nella mia stanza, praticamente in mutande con la spada in pugno. Ma non c’è nessun nemico, non visibile ad occhio nudo. Le zampette erano solo nella mia testa, il vero avversario è dentro di me, e con lei non servono le spade. La paura. Preziosa alleata, temendo flagello, inizio e fine di ogni scontro. Barcollo verso il giaciglio, rimetto in ordine le lenzuola mentre inizio a sudare seriamente. Mi infilo nel letto e ripongo il pugnale. La spada, ora, riposa accanto a me. Immerso nella luce azzurra delle stelle, ascolto le onde.

Stanotte sono solo, e sono pronto a partire...

Vergato col sangue da | 13:17 | Commenti(0)

05.08.05

On the road again

Lo zaino è pronto.
Le pozioni. Un paio di pergamene, anche se me le porto dietro da mesi e non le ho ancora usate, ma non si sa mai. Qualche boccetta d'olio, trovassimo qualcosa da bruciare. Un buon rotolo di corda. I guanti, i rampini, i chiodi da arrampicata. Un buon vecchio sacco, dovesse esserci bottino da portare via.
Il pugnale nel fodero dell'avambraccio. L'arco, qualche freccia robusta. La spada nel fodero, perfettamente oliato, scivola senza uno scricchiolio. La cintura, gli stivali di pelle, il mantello da viaggio. Sono pronto.
Stamattina è arrivato il messaggio, finalmente. Si parte Soladain prossimo. Stavo morendo di noia in questo posto. Non avevo nemmeno più voglia di allenarmi. Queste settimane mi sono sembrate mesi.
Dopodomani saremo nuovamente in viaggio, come non facevamo da troppo tempo ormai. E in questo momento non mi importa di niente, nemmeno se Rheddrian ci sta mandando a infilarci nella tana di un Drago, o a stuzzicare una tribù di Beholder non-morti, o persino se ci stiamo per tuffare nuovamente a capofitto in qualche incomprensibile complotto di Entità immortali. Siamo sulla strada, finalmente, come avventurieri che si rispettino. Come ai bei vecchi tempi.
On the road again.

Vergato col sangue da Moran | 22:22 | Commenti(0)

03.08.05

Un giro da veri uomini

Giro e rigiro tra le dita il regalo dell'Arcinquisitore. Chissà perché me lo porto dietro dappertutto. Forse perché credo che lui ce l'abbia regalato per questo: portarcelo dietro dappertutto.
Ipnotizzato resto immerso nei miei pensieri, come al solito. Unica distrazione, questi viaggi per l'approvvigionamento al villaggio sulla costa, le ore passate al porto a guardare le facce di chi passa di qui. Per il resto niente da fare.
Ti stai rammollendo.
Certo che ad oziare così si perde anche la voglia di...
- ... e tu, Fëaringel?
- Cosa?
- Tu cosa bevi?
- Non saprei. Voi cosa state prendendo?
- Ossian un tè scuro, Hierax del succo di arancia spremuta e io una tisana rinfrescante.
- Vada anche per me per l'arancia spremuta.
Dico, ti rendi conto, Elfo?
Che intendi dire?
Ci gradisci dentro anche una decorazione di carta colorata come si usa a Minrothad?
La battuta acida di Narbeleth mi riporta rapidamente alla realtà. Guardo i miei compagni seduti intorno al tavolo con me, armati di tutto punto, le facce bruciate dal sole e le mani segnate da mille cicatrici. I Conti di Corran Keep, con il cantastorie che ha narrato le loro gesta nelle peggiori taverne dei porti di Alphatia, ospiti del circolo ufficiali della Dogana, a ordinare bevande indegne anche per una rampolla di una famiglia thyatiana. E che magari Moran ci rovescerà addosso con una manata maldestra.
Non possiamo essere arrivati a questo punto. Scatto in piedi e quasi rovescio la mia sedia addosso ad un tizio seduto dietro di me.
- Ehi, che ti prende?
- Andiamocene da qui.
- Adesso che ci portano le ordinazioni...
- Ho detto che ce ne andiamo da qui. Ora.
- Ma...
- Niente ma. O vorrai cantare che i Conti di Corran Keep bevono succhi colorati in bicchieri puliti? Andiamo al porto, a bere birra scura nella peggiore taverna che troviamo.
Il buon vecchio saggio Moran si alza di scatto battendo la mano sull'elsa di Geburah.
- Credo proprio che tu abbia ragione. E se ci scappa la rissa tanto meglio.
- Almeno un giro a testa, però, e in boccali belli grandi.
Hierax inizia ad essere un po' meno filosofo e più pratico.
- Amici, io non credo di poter offrire nessun giro, perché... è strano, però, l'avevo nascosta bene stavolta... non trovo più la mia scarsella... devo averla persa in viaggio.
- Offro io, Ossian.
Mi fa piacere che ti sia rinsavito, Fëaringel.
- Ah, un'ultima cosa, amici: ricordatevi di non dire niente a Rin Galen di questa storia.

Vergato col sangue da | 13:59 | Commenti(0)